L’Aquila e la Croce

Il fatto che Papa Bergoglio – succeduto a Benedetto XVI dopo le sue misteriose “dimissioni” – non si sia mai occupato della Santa Sede, è un dato di fatto. Altrettanto evidente, del resto, è la strategia culturale e politica del sudamericano, che pare voglia farsi portavoce dell’èlite progressista e globalizzata. Sebbene i tempi siano a noi sfavorevoli, non lasciamo nulla al caso: semplicemente, il nostro compito è fare quello che deve essere fatto. Con riferimenti che galoppano nei gangli della storia e della memoria, il nostro approccio è al “qui e ora”, nell’immediato.

Ponte delle Aquile 01

Identità a Tradizione – in tal senso – sono le nostre parole d’ordine. E allora, vogliamo porre la nostra attenzione sulla complessa divisione tra potere temporale e potere spirituale di medievale memoria; anche perché, inquadrando il gesto di Benedetto XVI all’interno di una tradizione, pur desueta, viene in mente una figura controversa e piuttosto oscura di quel periodo, Celestino V.Dalla contesa tra guelfi e ghibellini contemporanea alla vita di Dante, ci si è posti il problema del potere temporale e spirituale, dell’Aquila e della Croce, argomento trattato dallo stesso Sommo Poeta nel De Monarchia. Per Dante, l’Aquila presiede al “recte facere”, ovvero alla vita dell’uomo, a quell’amministrazione delle leggi e della giustizia che si avvicini il più possibile ad un paradiso terrestre, ma che non abbia la presunzione di raggiungerlo.In altre parole, l’amministrazione della giustizia da parte della Regalità imperiale, attraverso l’acquisizione delle virtù cardinali in rinforzo del battesimo, fa sì che le anime tornino allo stato di purità che era quello di Adamo prima del peccato originale; è infatti grazie a questo recupero ontologico dello stato edenico, che l’Aquila si prefigge l’obiettivo di dover ripristinare – nei limiti dell’umano – il Paradiso terrestre.

Perciò la “Regalitas” non assume alcuna parvenza metaforica, bensì un significato simbolico: si raccoglie la tradizione ariana del simbolo dell’aquila, simbolo di olimpica regalità ed eroismo che presiede le quattro virtù cardinalie condanna, nell’immaginario ancestrale, l’usurpazione della regalità, la quale nel mito di Prometeo consiste nel furto di quel fuoco sacro che egli stesso cercò di ottenere attraverso il titanismo umano, tradendo così l’appartenenza divina dello stesso fuoco, oltre che sconfinando nella dismisurata su-perbia dell’uomo e pertanto peccando di hybris (ὕβρις).

Del resto, lo sconfinamento è follia che pretende di eguagliare l’infinita grandezza del divino, perciò l’hybris crea il nulla infinto, la punizione eterna che si compie in Prometeo attraverso il continuo nutrirsi da parte dell’aquila del fegato dell’incatenato.

Ora, lo stesso Dante non racchiude la felicità nella sola sfera temporale, ma l’acquisizione attiva delle virtù cardinali trova fondamento nelle superiori verità. La felicità temporale corrisponde al primo passo per un cammino celeste presieduto dalla Croce, il “recte scire”, che ha il compito di guidare le anime alla vita contempla-tiva e alle virtù teologali, cioè fede, speranza e carità. Invero, secondo René Guénon – che su tale argomento dedica un intero studio concentrato ne Il simbolismo della Croce – il più conosciuto significato della croce trova fondamento nelle verità di una Tradizione primordiale che poi torna ad essere la causa del sacrificio di Cristo, nel compimento di un simbolo che aveva già assunto dei significati tanto ascetici quanto complessi.

La realizzazione dell’Uomo Universale viene simboleggiata, dalla maggior parte delle dottrine tradizionali, con un segno che è dap-pertutto il medesimo, poiché – come già abbiamo affermato – è di quelli che si ricollegano direttamente alla Tradizione primordiale: si tratta del segno della Croce, che rappresenta perfettamente il modo in cui viene raggiunta tale realizzazione, me-diante la comunione perfetta della totalità degli stati dell’Essere, ordi-nati gerarchicamente in armonia e conformità, nell’espansione integrale secondo i due sensi dell’ampiezza e dell’esaltazione” (vedi capitolo III, “Il simbolismo metafisico della croce” de Il simbolismo della croce).
Tuttavia, come in ogni epoca e società, l’opposizione tra sacerdozio e regalità si va inevitabilmente a formare. Nel caso dell’Occidente, sempre René Guénon in Autorità spirituale e potere temporale, individua l’origine di questa contesa nel mancato riconoscimento da parte del pote-re temporale dell’autorità spirituale (non a caso nel Medioevo l’incoronazione di re e imperatori avveniva per l’investitura del vicario di Cristo); anche se, invero, essendo Cristo “Rex et Sacerdos” (oltre che “Propheta”), anche l’Imperatore è degno di ritenersi anch’esso suo Vicario accanto al Papa, in quanto detentore della “Regalitas” nella sfera temporale in funzione di una escatologia che poi viene ad essere l’istituzione del Regno di Dio in terra.

Quello cui assistiamo oggi, dal “gran rifiuto” di Benedetto XVI – che per dirla ancora con Guénon, potrebbe essere non un semplice caso, bensì il compimento dei tempi previsto da Dante che descrisse nella Commedia Celestino V come “l’uomo del gran rifiuto” – è un vero e proprio svuotamento dell’ordine spirituale da parte dell’autorità spirituale stessa. In vero, il rapporto tra regalità e Santa Sede lo si trova, come Dante illustra, direttamente nel Vangelo, poiché la stessa nascita di Cristo avviene sotto la “potestas” di Augusto.

Poi il rapporto subisce delle storture, la prima è da individuare nella donazione di Costantino del 315 d.C. che altera il ruolo della Chiesa, affidandogli un potere che non gli spetta e denaturando quelle che sono le rispettive funzioni di ciascuna delle due autorità. Un’altra è il gravissimo errore del re francese Filippo il Bello che – con la complicità del pontefice – sposta la Santa Sede in Francia facendo venir meno la romanità stessa della Chiesa, che si fa complice di atti gravissimi: tra questi, la dissoluzione dell’ordine del Tempio, da sempre espressione sia di regalità che di sacerdozio, assolvendo un ruolo sia guerriero che monastico. Se volessimo poi perseverare su Dante, potremmo far riferimento alla confraternita alla quale si affiliò, ovvero i Fedeli dell’Amore; meno conosciuto, invece, è il suo ruolo all’interno di una organizzazione iniziatica, la Fede Santa, che manteneva la sua affiliazione templare e che ha suscitato non pochi dubbi sull’appartenenza “eretica” e nascosta di Dante, sulla quale Guénon si esprime nel suo libro L’esoterismo di Dante: “Da parte nostra, non pensiamo che questo sia il punto di vista da cui porsi, poiché il vero esoterismo è una cosa del tutto differente dalla religione esteriore, e, se ha qualche rapporto con questa, non può essere che in quanto trova nelle forme religiose un modo d’espressione simbolico; d’altronde, importa poco che queste forme siano quelle di tale o di talaltra religione, poiché ciò di cui si tratta è l’unità dottrinale essenziale la quale si dissimula dietro la loro apparente diversità. Tale è la ragione per cui gli iniziati antichi partecipavano indistintamente a tutti i culti esteriori, secondo i costumi stabiliti nei diversi paesi dove si trovavano; ed è anche perché Dante vedeva questa unità fondamentale, e non per l’effetto di un sincretismo superficiale, che ha usato indifferentemente, secondo i casi, un linguaggio preso sia dal cristianesimo e sia dall’antichità greco-romana. La metafisica pura non è né pagana né cristiana, è universale; i misteri antichi non erano paganesimo, ma vi si sovrapponevano; e parimenti, nel medioevo, vi furono organizzazioni il cui carattere era iniziatico e non religioso, ma che avevano la loro base nel cattolicesimo. Se Dante appartenne a qualcuna di queste organizzazioni, il che ci sembra incontestabile, non è dunque questa una ragione per di-chiararlo eretico; coloro che pensano in tal modo, hanno del Medioevo una idea falsa o incompleta; non ne vedo-no per così dire che l’esteriore, poiché, per tutto il resto, non vi è più nulla nel mondo moderno che possa servir loro da termine di paragone.”

Tornando a noi, a partire dal Concilio vaticano II, le élite progressiste hanno svuotato “ad hocla Tradizione spirituale rappresentata dalla Chiesa e dalla Tradizione cattolica, infiltrandosi come un cancro sia nel potere temporale che in quello spirituale. Insomma, nessuna parvenza di Aquila o di Croce di dantesca memoria, nessun significato trascendentale né politico, ma solamente un au-tentico asservimento dell’autorità spirituale della Chiesa a quello che non possiamo certo chiamare ordine temporale, bensì un mare di caos rappresentato e consolidato dalle istituzioni liberali, attente ad asservire le Nazioni al “buon samaritano” George Soros.

Ebbene, su questo Papa Bergoglio si è rivelato un maestro, poiché con la sua elezione a Pontefice è riuscito a spazzar via dalla Chiesa quella parvenza di Sacro che il Concilio Vaticano II non era riuscito ancora a spezzare.

Perciò, tornando sul Sommo Poeta, l’allegoria del Veglio di Creta di Dante, con il quale descrisse la diaspora delle insegne dell’Aquila e della Croce nel XIV secolo, si ripresenta nel XXI, che stiamo vivendo. A ragione di questo possiamo ancora una volta scomodare René Guénon, che individua nel compimento dei tempi la capacità di Dante nel preservare questo segreto, oltre che prevederlo: non grazie ad occasionali doti profetiche, bensì alla attenta conoscenza delle leggi cicliche del mondo. Dunque, riguardo il Veglio di Creta, Dante ci ricorda che Enea – prima di approdare nel Lazio – naufragò a Creta, così come fece San Paolo di Tarso. Il naufragio della Tradizione sembra compiuto, se si vuol sfociare nel pessimismo incapacitante.

Ma sulla Tradizione, l’immortale Dominique Venner, il quale ha in-carnato nella nostra èra un’etica cavalleresca di stampo medievale, impone la sua autorità: con coeur ribelle ci richiama ad una atavica convinzione. La Tradizione non può morire con il tempo, perché è fuori dal tempo: è l’asse composito della storia. Le forme antiche, spezzate dal tempo, non risorgeranno. Ma ciò che è di sempre, invece, ritornerà. Al bando ogni fatalismo!I n tal senso, un giorno potremo dire che L’Aquila rinacque, fedele al motto di Virgilio: “Immota manet”. Rimane immutata. Resta ben salda! Così vinceremo sotto il segno della Croce, che già nel passato portò gli uomini che credono alla vittoria: “In hoc signo vinces”. Sotto questo segno vincerai!

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