Imperium

Ci ritroviamo nuovamente al ventuno d’Aprile, ora nel 2021, e ancora rimaniamo, al suo 2773° compleanno, attoniti alla vista dell’Urbe, dei suoi marmi, delle chiese, delle basiliche, delle cattedrali, delle piazze e delle fontane. Dinanzi a lei ci sentiamo sbigottire proprio come Titiro: “Melibeo, io credevo scioccamente che la città di Roma fosse simile alla  nostra di qui, dove noi siamo soliti svezzare i teneri agnelli appena nati. Così sapevo che i cuccioli assomigliano alle cagne, e i capretti alle madri; così confrontavo cose piccole e grandi. In realtà, Roma si innalza tanto sopra le altre città quanto i cipressi sul flessuoso viburno.”

Tanto ancora si innalza Roma sulle altre città, tanto i suoi moribondi fori e gli eccelsi Archi. Sono in questa giornata più che mai benevolmente accettate le rivendicazioni di una fondante italianità di Romolo e di Roma nel suo complesso, e ben vengano gli elogi alla storia della gloria romana, quel tempo confuso dai secoli per noi ereditieri quando da un capo all’altro del mondo si obbediva alle leggi del Senato, e la felicità di avere come capitale proprio l’Urbe, grande vanto per l’Italia e fatto necessario per la sua stessa esistenza, se a ragione si vuole tracciare tra le due una continuità.

Si usa giustamente ripercorrere il mito della sua fondazione, così tipico ma anche così originale. Che il primo atto del suo fondatore sia un fratricidio, esecrabile seppur nell’ottica di una punizione per un sacrilego, ci colpisce ogni volta, come quell’avvertimento che Romolo pronuncia sul corpo straziato del fratello: “Questo accada a chi altro oltrepassi le mie mura”. E di solito si possono intessere interessanti discorsi sul valore intrinseco dei confini, del limes come fondamentale elemento per qualsiasi civiltà ed armoniosa esistenza di ogni etnia, della sacralità e necessaria difesa di quest’ultimo.

Tuttavia c’è qualcos’altro che questo giorno può lasciarci, che vada oltre la sua mera celebrazione (posto che essa esista realmente siccome coinvolge una estrema minoranza della cittadinanza). È giusto lo sbigottimento e la riverenza, ma non è auspicabile una sorta di superficiale e necrofilo affetto per le pietre di San Pietro o i fori imperiali. No, Roma ci lusinga con una speranza, ci offre una sfida e un obbiettivo, ci schiude un’idea e una direttrice, ci mostra il passato per concederci un futuro. Perché  guardarci alle spalle se siamo in procinto di sfondare le porte del nostro futuro? Deve scorrere lungo le scanalature di quell’erme colonne un pensiero che oltrepassi- non ce ne voglia male Romolo per la scelta lessicale- che si innalzi, dunque, dagli stessi sette colli, dalla stessa Roma. Abbiamo additato un destino, sarebbe vergognoso tralasciarlo. Quale può essere? Null’altro che l’Impero. Tre sillabe pesanti e robuste; una parola, un pensiero, un ideale dei più antichi, ma tra i più rivoluzionari per l’oggi. Se può sembrare un residuo di tempi da superare al più presto, senza indugiare in remore nel dirlo, si erra gravemente. Ma prima di tutto: Che cos’è un Impero?

Che cos’è un Impero?

La storia ce ne fornisce una vasta gamma: imperi dalle fogge più variegate, presenti, passati nel silenzio del tempo, altri tra angoscia e strepito; impero cinese, impero francese, mongolo, persiano, impero messicano -sicuramente effimero ma originale nella sua nascita per i tramacci in terre completamente a lui inutili di un imperatore francese che non voleva sentirsi inferiore allo zio-, imperi commerciali, talassocrazie, teocrazie.

Da un punto di vista schiettamente linguistico, si è soliti definire la nozione di impero come uno stato autocratico talmente vasto che inglobi sotto il suo potere svariate etnie, oppure genericamente come forza, supremazia e dominio indiscusso. È stata posta una domanda a cui, in realtà, non si risponderà. Invece ciò che necessita è delineare non un significato ma un’accezione d’Impero, che proprio Roma incarnò e può additare per il futuro.

L’impero che si vuole inquadrare non è una struttura giuridico-amministrativa, ma una forma mentis, prima del popolo in cui nasce e degli altri aggregatisi in seguito. È la massima gloria d’una stirpe e la sublimazione d’uno stato (“È lo Stato che educa i cittadini alla virtù civile, li rende consapevoli della loro missione, li sollecita all’unità; armonizza i loro interessi nella giustizia; tramanda le conquiste del pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto, nell’umana solidarietà; porta gli uomini dalla vita elementare della tribù alla più alta espressione umana di potenza che è l’impero”).

L’Impero è un ordine prima di tutto spirituale e successivamente territoriale.

Quando le aquile romane trasvolavano dalla Britannia all’Egitto, non recavano seco solo delle temibili armate, pronte ad appostarsi sui confini loro assegnati, ma soprattutto un ideale, un’idea di civiltà, giustizia e forza, un futuro e un saldo nucleo di valori. Su un territorio livido di recente strage si tracciava una strada, sui deserti si innalzavano biblioteche. Se un’ingiustizia piagava una regione, il diritto raddrizzava i torti. Se l’una e l’altro venivano minacciati, non esitavano a ricorrere alla forza. I territori occupati e i popoli inglobati, o volontariamente unitisi all’impero, col tempo venivano infusi della fede in Roma e dei valori della sua civiltà, tanto che spesso divennero salvatori della loro patria imperiale. Di questo è possibile produrre diversi esempi, tra i quali gli imperatori illirici e Stilicone. Roma fece d’un mondo una città, d’un mondo una cittadinanza. D’un globo un ordine spirituale. Impresse nei popoli, associati più che sottomessi, la fiducia nelle forze e nel destino dell’impero stesso; l’impero è la fede nell’impero. Ci si potrebbe spingere nell’affermare che civiltà e giustizia siano ipostasi della fede imperiale e questa della civiltà e della giustizia: le une manifestazioni contemporanee dell’altra e viceversa.

La fede imperiale richiede un centro, come nelle religioni una gerarchica scalata verso il massimo sacerdote. Non furono negligenti nemmeno in questo aspetto i nostri antenati. Roma era il punto centrale che irrorava tutto ciò che a lui ruotava intorno, il fuoco di Vesta che dall’Urbe prorompeva in tutto l’Impero. Questa Roma, questo punto, queste fiamme, per coloro che non la tangevano con lo sguardo, ma anche per gli stessi abitanti, aveva assunto sempre più la forma eterea di quel sacro fuoco. Proprio quello che fu tra i primi simboli della neonata città, proprio quello per la negligenza del quale si condannavano a morte le giovani vestali. Il fuoco sacro può essere visto come simbolo del destino che punisce chiunque se ne desvii.

L’Impero è il capolinea di un destino, il termine ultimo dello sviluppo d’un popolo. Perciò esso è fine, ma si configura anche come mezzo, mezzo di se stesso e dell’elevazione dei popoli.  Questo implica che l’Impero viva di se stesso e si sviluppi in sé. Dall’impero nasce l’impero, dalla volontà d’impero, dalla sua forma mentis, e come detto esso è la fede stessa di sé.

Se l’Impero è il più alto traguardo delle nazioni, l’unico popolo che lo possa carpire è quello che serenamente imbraccia le armi e si dona al suo destino, fata volentem ducunt.

E l’unico modo per condurre questo popolo imperiale sui fatali binari è quello di dotarlo di una avanguardia, la quale non può permettersi alcun indietreggiamento, pena tradire il suo compito. È anche necessario che questa avanguardia sia assolutamente aristocratica perché non solo sarà lo strumento per la realizzazione dell’impero ma anche per la sua difesa, strutturazione, eventuale espansione. L’aristocrazia ha la necessità di rimanere tale – naturalmente non si intendono i singoli individui, ma il loro modo d’essere – per tutta la durata dell’esperienza imperiale, non sono possibili allentamenti della presa, però che vorrebbe dire rinunciare all’impero. Se infatti questa è riuscita a concretizzare le sue aspirazioni e quelle del destino del suo popolo, ciò dimostra la sua adeguatezza per condurre la nazione.

Si è soliti ricondurre l’aristocrazia a quella di sangue che ha sempre caratterizzato ogni società nella storia umana. In questo caso invece si parla d’aristocrazia dello spirito. L’aristocrazia chiamata a fondare e a reggere l’Impero non è un concistoro di baroni e marchesi, bensì il collegio degli individui migliori che la stirpe possa offrire. Essi sono già uomini d’impero, essi sono già uomini nuovi, temprati al sacrificio e al rigore ideale. Sono coloro i quali, sul solco dei cives romani, sono i primi ad incarnare nelle loro persone valori quali l’onore e la fedeltà, scagliano i loro spiriti contro ogni ostacolo ed elevano i propri popoli.

Altro tassello fondamentale è l’esistenza d’un Capo che raccolga questa aristocratica avanguardia e ne sia il riferimento, così come per l’impero da lui guidato. Inoltre egli ha il compito di incarnare quel centro irradiante, quel fuoco, quel sacerdozio della fede imperiale. Sempre il titolo di pontifex maximus secondava quello d’imperatore. A proposito di capi ed avanguardie, anche Mazzini espresse delle sue opinioni sull’argomento e così rimpianse la mancanza di capi nelle lotte per l’indipendenza nazionale:

“Mancarono i capi; mancarono i pochi a dirigere i molti, mancarono gli uomini forti di fede e di sacrificio, che afferrassero intero il concetto fremente delle moltitudini, che ne intendessero ad un tratto le conseguenze, che, bollenti di tutte le generose passioni, le concentrassero in una sola, quella della vittoria, che calcolassero tutti gli elementi diffusi, trovassero la parola di vita e di ordine per tutti, che guardassero innanzi, non addietro, che si cacciassero tra il popolo e gli ostacoli con la rassegnazione di uomini condannati ad essere vittime dell’uno o degli altri; che scrivessero sulla loro bandiera riuscire o morire, e mantenessero la promessa”.

Per il compimento dell’impero sono necessari dei Camillo, degli Scipione.

Quando si parla di compimento dell’Impero, è bene sottolinearlo, si tratta del compimento di questo tipo d’impero. È meglio lasciare a scontri cinematografici l’impero oppressivo ed incarnazione del male, così come il suo antagonismo con una qualsiasi repubblica. Se vi è qualcosa che possa giovare di più all’idea imperiale, questa deve essere una giusta distinzione di genere tra impero e impero.

Che cosa non è un Impero?

Se si cerca di tracciare un percorso, i paracarri non possono mancare; anche perché uno sguardo ai contrari permette una migliore delineazione dell’idea. Quando pensiamo ad imperi dell’età moderna subito ci rivolgiamo a quelli coloniali di stampo franco-inglese, a quello liberal-capitalista americano e infine quello comunista della grande Unione delle repubbliche sovietiche. E’ normale ricondurre qualsiasi impero ad uno di stampo imperialista e colonialista europeo della fine del XIX secolo e l’inizio del XX, soprattutto nel clima culturale di questo mondo moderno dove questo assume veramente le fattezze del male incarnato. Anche se non si negano alcuni benefici che apportò alle regioni conquistate, il suo modello non è compatibile con l’idea di Impero che rivendichiamo.

Innanzitutto domini coloniali come quello inglese rintracciano la loro nascita nell’opportunità di ricchezza e potenza geopolitica. L’opportunismo è la sua insegna, non un ideale. D’altronde non ci si potrebbe aspettare altro da parlamentarismi e liberalismi vari. Più che il desiderio di potenza di un popolo, hanno la meglio le esigenze di mercato: annettere nuovi territori per ingrassare le banche di Londra. Una volta sfruttata l’India si ripara in Africa. Si forza e piega la Cina sulla punta della baionetta e dell’oppio. Quello occidentale-coloniale è un imperialismo coatto che non si pone il problema di edificare una propria civiltà imperiale, un sostrato culturale, valoriale, spirituale di un Vir Imperii, che invece aveva in parte caratterizzato l’impero romano e che deve essere il fulcro di un qualsiasi eventuale nuova riproposizione. Roma infatti, oltre alla fede in se stessa, non si era mai esentata dall’infondere nelle popolazioni sottomesse non solo una gretta affinità di costumi ma soprattutto un modo di essere cittadini, e se vogliamo spingerci al futuro, una comune visione del mondo.

Avrà l’Africa un sol nome: Roma! È il gran nome dell’eterna civiltà!

Quando nel 1936 si entrava in Abissinia poco valevano i vantaggi economici che potevano presentarsi, l’obiettivo era fecondare quella scatola di sassi africana per prima e poi il resto del mondo, come sognava Ricci, con la civiltà del Fascio e della camicia nera. Si entrava col sorriso sulle labbra, con la consapevolezza dell’estremo passo che si stava compiendo, con quella raggiante fede nell’Italia e nel futuro impero distruttore di ceppi e catene. Faccetta nera, bell’abissina/Ti porteremo a Roma, liberata/Dal sole nostro tu sarai baciata/Sarai in Camicia Nera pure tu, tutti i popoli dell’impero partecipano alla nuova civiltà; con le giuste distinzioni e le sacrosante eterogenee identità ogni individuo è un Vir Imperii, fecondato dall’impero e pronto a servire l’impero. È inutile credere che si aggreghi a noi un popolo solo costruendo qualche biblioteca e qualche ospedale; l’impero parte e partirà sempre dall’uomo. Ciò non può accadere dove non v’è né uomo né civiltà infusi nelle nuove conquiste, al massimo v’era il mercante e la società del mercato.

Tale tipo di impero non può nemmeno considerarsi frutto di un destino comune di tutto il popolo, dato che il suo sistema è in sé stesso negatore di un destino comune e costantemente si burla di esso, e non provenendo dal consapevole adempimento di un destino comune, esso si trasmuta in una mera oligarchia.
L’impero inglese non è mai esistito, al massimo esso era un vivaio di mercanti e Londra un bivacco di banchieri. Ciò che fievolmente tratteneva lo stato da un completo liberalismo era la conservazione della corona e del, seppur pestifero, anglicanesimo. Perciò il dominio inglese restava fermo al livello di nazione, si fermava all’ideale d’un sempre decrescente nazionalismo. Nemmeno da quest’ultimo può scaturire l’impero: se questo previene la costituzione di una civiltà comune sotto i vari gruppi razziali e culturali, e che non abbracci una visione universale, esso non v’è; se questo degrada -almeno nel primo ci sono spazi per espansioni e slanci- in un blando sentimento patriottico mirato alla difesa più che alla potenza, esso non v’è.

L’impero è tutto ciò che più di tutti balza dalle forze fresche e giovani d’una nazione -è esecrabile lo stato ristagnante dell’Italia e dell’intera Europa, i loro corpi sono tormentati da ripugnanti piaghe da decubito.

Stretti in fascio: è l’unico modo perché possano i cittadini avviarsi sul percorso. Una chiamata alla completa unità può rappresentare una vera rivoluzione, un cambiamento di rotta audace e benigno. Non può infatti elevarsi la nazione che non convogli le sue forze in un temibile torrente; le sue divisioni, le sue lesioni esiziali che la piagano dalla continua negligenza del proprio destino a cui ella deve rispondere, affievoliscono se inquadrate in un sistema organico il quale si ponga come radicale alternativa al contrattualismo imperante. L’unità poi, oltre ad un medesimo orizzonte, spinge ai più alti sentimenti d’una nazione, ovvero al senso responsabilizzante della comunità e del dovere, ed alla solidarietà nazionale. Ancora, essa può condurre alla cessazione, già in parte implicita nella solidarietà, della lotta di classe sino all’annullamento del classismo monetario; può condurre all’unione del lavoro col capitale; può permettere la cogestione dell’impresa del titolare e dell’operaio e tramite sindacati o corporazioni la partecipazione degli operai stessi nella gestione dello stato.
A ben vedere l’impero inglese e tutti quelli del suo tipo sono, dunque, estremamente antitetici rispetto a quello qui presentato e sognato da molti fascisti, tra tutti Berto Ricci, il quale giustamente ribadì sempre la necessità di una feroce lotta, non contro Mosca, ma Cartagine, l’impero dei mercanti e dei mercenari.

Tuttavia Londra non esaurisce per sé gli insulti di Cartagine, ma anzi è surclassata dall’America. Non dà spazio ad eufemismi lo stesso Ricci nella critica a Chicago, presa a simbolo dal fiorentino, parlando del dominio statunitense e definendo la sua una “civiltà del maiale”, giacché tutto ciò che poteva essere esacerbato in Inghilterra si trova a Washington, che è la culla di uno tra i più subdoli potentati della storia. Scalzata la corona, nato con e per il liberalismo, lo stato americano tiene ancora in scacco, in punta di sanzioni e basi sparse per il mondo, almeno metà del globo. Si tratta di un velato controllo diretto, mascherato sapientemente come solo una preponderante supremazia militare ed economica, a cui è libero di aggregarsi e della prosperità del quale può beneficiare qualsiasi paese, esso però può ingiungere ordini, forzare e violentemente irretire gli stati ed i liberi popoli al suo dominio, e infine governare col suo capitalismo le nazioni.

Ma quel ch’è peggio poi è la costante emanazione di miasmi ideali nei paesi sottomessi e in quelli segnati sulla mappa, pronti per una dose di diritti umani, la materializzazione di un mondo e dei mondi, che prima avevano sempre vissuto nelle più varie fogge delle manifestazioni dello spirituale e del sacro. Questo è innato nella natura umana e compito fondamentale dell’Impero è il preservarlo in ossequioso rispetto, ed anzi, essendo esso stesso un ordine spirituale, non può esistere senza di quello. Oltre alla riverenza verso qualsiasi divinità, il sacro incorpora anche tutto ciò trascende l’individuo ma non sfocia nella religione, ovvero, per esempio, il sacrificio, il coraggio, l’onore e la fedeltà; ad una rapida occhiata è chiaro il perché l’Impero debba dunque mantenersi sacro -nelle sue leggi, istituzioni, simboli – e mantenere il sacro nei sui cittadini.

Exaudi, genitrix hominum genitrixque deorum: non procul a caelo per tua templa sumus  (ascolta [Roma], madre di uomini e di dei: grazie ai tuoi templi non siamo lontani dal cielo).

Il morbo del materialismo affliggeva anche l’antico nemico, l’impero sovietico, almeno prima della dissoluzione finale – infatti è curioso notare come nei territori una volta controllati ci sia stato un rapido ritorno al sacro. L’Unione Sovietica soffriva di tale male e perciò, sebbene ne avesse avuto la possibilità, si asteneva dal divenire Impero anche solo per questo. Tuttavia era altresì impedita da un problema endemico in tutti e tre gli imperi moderni: l’appiattimento. Nel dominio inglese e nel suo funesto sviluppo in America, si tendeva all’appiattimento nella mediocrità e nella vita borghese, la vita del calcolo dei rischi e delle perdite, del profitto e della sicurezza; nell’individuo privato di qualsiasi eroismo. Nell’Unione Sovietica poi l’appiattimento è nell’egualitarismo che schiaccia una massa anonima e amorfa già privata del sacro. In realtà questo si potrebbe dire che accadesse anche negli altri due, ed in effetti corrisponderebbe al vero. D’altronde i primi due e l’ultimo non sono antitetici, come sempre presentati, ma invero gli uni il crepuscolo e l’altro l’alba, anche se, solo osservando quello americano e quello sovietico, sarebbe più corretto piazzarli come gemelli nati da quello inglese. Dunque l’appiattimento egalitario li piaga, ma ancora un altro tipo di appiattimento li distanzia da Roma: quello etno-culturale.

Il comunismo ha stretto un patto con il liberalismo, i due sistemi valoriali si sono fusi, ad ulteriore dimostrazione della loro relazione di gemelli, così che in una sola vece -già in sé inglobano l’Inghilterra- gli U.S.A rivestono tutti i problemi elencati e quest’ultimo. Sotto il pondo della globalizzazione capitalista, cade la coscienza nazionale e culturale dei popoli, e ci si avvia verso la stessa massa anonima e amorfa del gemello sovietico. Avulsi dalla propria comunità gli individui rinnegano persino uno tra i più fondamentali dei concetti, ovvero l’appartenenza ad una stirpe.

Nell’impero, è inevitabile per la sua natura, convive sì una moltitudine di popoli e culture, che tuttavia non sfocia nel cosmopolitismo e il funereo concetto di melting pot, dove tutto si perde; è un multiculturalismo dove ogni razza e cultura coesiste nella propria integrità, sempre condividendo una civiltà comune, come si è già ricordato, sotto le ali dell’impero, così come ogni gerarchia nazionale. L’esempio più limpido di ciò fu la ribellione contro l’eresia materiale: accomunate dalla stessa fede, stirpi d’ogni nazione europea marciavano insieme contro il medesimo nemico.
A questo riguardo può essere molto istruttivo ciò che ebbe a dire Leopardi su d’una delle cause -naturalmente opinabile ma interessante per un discorso sul cosmopolitismo- identificate da lui della caduta di Roma: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”.

Che le Aquile tornino a volare

Insomma, ora che si è un minimo delineata questa accezione di impero, qual è quel futuro che si diceva apprestato per noi? Per rispondere siamo costretti ad entrare nel precario regno dei se e dei ma. Fondare un impero nel 2021 o nell’immediato futuro appare sempre più una pazzia, ed infatti in parte è tale. Tuttavia è necessario un cambiamento di prospettiva. Infatti, se per esempio ci concentriamo su un futuro imperiale per l’Italia, le prime terre sotto mirino sarebbero quelle berbere e arabe affacciate sul Mediterraneo e magari quelle del corno d’Africa, per reminiscenze ottuagenarie. Una conquista di tali parti del mondo, a ben vedere, è pressoché impossibile al giorno d’oggi, non tanto per una mancanza di una forza militare adeguata, ma per la seria difficoltà di gestirle dopo l’acquisizione. Non ci troviamo più nel mondo anche solo del 1936 dove alcune parti del globo non erano a conoscenza di concetti quali nazione o stato. Oramai infatti anche il più piccolo stato africano inizia a sviluppare un senso di appartenenza nei suoi cittadini, cosa che al più si poteva dire per delle singole tribù. Questo senso di appartenenza porta inevitabilmente a preferire l’indipendenza della nazione, soprattutto quando le popolazioni locali sono sobillate da anni contro l’imperialismo occidentale, seppur ci si voglia differenziare come già detto dagli imperialismi del XIX secolo.

Inoltre nell’era della celere comunicazione, la tecnologia fornisce una cassa di risonanza per qualsiasi gruppo riottoso nell’area. Insomma, un desiderio di indipendenza e la maggiore fattibilità di una guerriglia tra occupanti e occupati -ormai molti stati hanno avuto esperienze di questo tipo- chiudono un futuro imperiale in quelle zone, dove ogni tentativo sarebbe dannoso, lungo e dispendioso sia di vite umane sia di risorse. Tuttavia, a dir la verità, un’espansione in quelle zone non sarà chiusa in eterno: già, per esempio, ci sono degli avamposti dove si rimpiange il benefico dominio italiano, e la conquista può essere procrastinata ad impero fondato anche se ciò ci renderebbe piccoli nei confronti dei nostri antenati, infatti Roma si è rivelata nella sua grandezza quando sottomise gli Etruschi, che per forza militare la sopraffacevano, e poi dei Galli, dei sabini, dell’alleanza tra i primi due, e dell’infinita schiera di nemici travolti nella polvere dall’Urbe, d’altronde Te non flammigeris Libye tardavit arenis, non armata suo reppulit Ursa gelu: quantum vitalis natura tetendit in axes, tantum virtuti pervia terra tuae (Co’ suoi deserti Libia non t’arrestò la corsa; non ti respinse il gelido vallo che cinge l’Orsa; quanto paese agli uomini vital, Natura diede,tanta è la terra che pugnar ti vede). Per non parlare poi della concorrenza, altro fatto che rallenterebbe la conquista, degli imperi nascenti e presenti in quest’era storica: America e Cina, la quale già è in movimento sul fronte africano, possono, a colpi di minacce, sanzioni e mercenari, porre gravi problemi sul percorso imperiale.

Dunque rinunciamo per il momento alle conquiste in altri continenti. Ed ora? Sempre restando sulla nostra prospettiva italiana, dove potrebbero presentarsi opportunità imperiali? E’ necessario trovare un territorio di comunanza culturale, razziale e linguistica; un territorio la cui popolazione è sufficientemente avanzata spiritualmente per l’accoglimento di una concezione imperiale. Quel territorio esiste ed ha fecondato il mondo della sua civiltà, anzi si potrebbe dire che esso abbia già fondato un impero, poiché tutte le nazioni della terra hanno adottato le sue istituzioni, e parte dei suoi costumi, sebbene queste commistioni al sostrato culturale precedente abbiano apportato più danni che benefici, avendo preso le istituzioni ed i costumi che rappresentavano i frutti marci della sua civiltà.

Questo territorio è l’Europa, che fino ad oggi è stata divisa in nazioni ed imperi. Se, invece, avesse il coraggio e la temerarietà di imboccare una strada imperiale ed unitaria, le strade per il suo futuro sarebbero invero infinite. Un’Europa che spiegasse dalle Azzorre agli Urali i labari di un impero comunemente europeo, non avrebbe nemici e marcherebbe l’inizio di una nuova era per il vecchio continente. Non è più il tempo per le due aquile per compierlo, quel tentativo è stato fallito, ma per l’unione, che non vuol dire rinunciare alle patrie, alle culture, all’omogeneità dei popoli, dei destini di tutte le nazioni europee. Le due aquile si strinsero insieme contro gli unni sui Campi Catalaunici, la maggior parte poi dell’Europa si strinse insieme sulle lande russe quando si marciava su Stalingrado, Leningrado e Mosca. A ragione il cancelliere tedesco paragonò il fatto ad una nuova crociata. Dunque riprendendo la corretta accezione di impero, quello europeo dovrà essere un ordine spirituale, una fede comune, un’idea di giustizia e civiltà, un desiderio di potenza e vitalità, un armonioso vivere di popoli che partecipano degli stessi valori e della stessa visione, infine uno stuolo energico di viri imperii.

Inoltre prefiggendosi l’Impero, l’Europa si incamminerebbe nella sua forma più alta, ed essendo tale è inevitabile che nella sua altezza ella riscopra la sua millenaria storia e che sotto i vanni imperiali la abbracci completamente. E’ necessario per la stessa identità europea riscoprire e abbracciare tutta la sua storia: Roma, Atene e Sparta, Aquisgrana, Omero e Byron, Achille e i Templari. Ecco che l’Impero si configura come l’estrema sintesi della civiltà europea -d’altronde il fascismo è lezione di sintesi. . Già ma -e qui si entra prepotentemente in quel regno precario dei se e dei ma- quale sarà il suo centro? Roma era il centro fisico e trascendente dell’impero dei Cesari; quale sarà quello europeo? Sarà una città? Roma? Berlino? Parigi? Vienna? Oppure sarà smembrato in ogni nazione, così che ogni capitale sia centro per il proprio popolo e parte di quello irradiante dell’impero? Ancora, che ordinamento politico dare all’Europa? Un unico capo, un Cesare? Oppure sarà meglio un consiglio che raggruppi tutti i capi delle nazioni dell’impero? Invece, per quanto riguarda il futuro, da dove iniziare? Intraprendere uno sviluppo sulla Terra o nello spazio?

Un’Aquila è nel cielo sopra te

Sono tutti questi sostanzialmente dei vaneggiamenti? Sì. Ci saranno mai risposte, ed anzi, più radicalmente, ci potrà mai essere la possibilità di un tale futuro? Forse mai, ma è anche questo un dono di Roma: sospingere verso utopici mondi chiunque la osservi.

La cruda verità tuttavia è che le prime cause dell’impossibilità di tutto ciò siamo noi stessi. Noi per primi con l’ansia di un mondo migliore sulle carte o nella mente ma mai nei fatti. Il nemico più temibile per l’uomo è se stesso, si sa. E noi cosa possiamo fare? Riformarci come uomini, divenire scalpello e marmo? Ci riusciremmo mai? A nostro conforto ci rimane il sogno di Roma, la sua orma che potrà sempre guidarci.

Obruerint citius scelerata oblivia solem, quam tuus ex nostro corde recedat honos (prima del sol negli uomini vanisca ogni memoria, che il ricordo, nel cuor, della tua gloria)

E almeno ci si goda i versi di Dante del canto VI del paradiso:

«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse,

cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

[…]

e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi;

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi
ebber la fama che volontier mirro.

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Sott’ esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.

E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
e ogne valle onde Rodano è pieno.

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna.

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

Antandro e Simoenta, onde si mosse,
rivide e là dov’ Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.

Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.

Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.

Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra.

Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro».

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