Il punto. Se l’autoreferenzialità diventa sistema.

La direzione che ha preso la politica italiana nelle ultime settimane richiama alla mente una stagione che si credeva terminata per sempre. Governi instabili e scarso riguardo per le scelte elettorali sembravano un ricordo del passato, ma la volontà di preservare il potere malgrado ogni principio correntemente accettato hanno dimostrato da un lato la definitiva smentita di ogni pretesa di alterità, e dall’altro il fatto che sia necessario riconsiderare il ruolo e il momento del concetto non solo di democrazia, ma anche dei motivi di giustificazione della permanenza al potere di un governo o di una forza politica.

MaZinga

Uno dei criteri politici (quindi non strettamente normativi) per valutare il diritto di un Governo a regolare la vita civile è il concetto di legittimità.

La legittimità, concetto formalizzato in questi termini e come tale fin dal Settecento, è definita dall’Enciclopedia Treccani come la «rispondenza alla giustizia e al diritto in senso ampio, o alla ragione, alla logica, ai principî morali, e in genere a norme e principî di natura non strettamente [normativa]». In altri termini, per essere “legittimo”, un Governo, ma più in genere qualsiasi ordine politico, deve essere ritenuto degno di essere riconosciuto come tale all’interno, da parte dei consociati sottoposti alla sua autorità. Il politologo francese Jean-Marc Coicaud la riassume, in sostanza, nel riconoscimento da parte dei governati del diritto dei governanti ad esercitare la guida e a godere dei privilegi.

Esistono naturalmente numerosi tipi di attribuzione della legittimità a governare. Nei tempi passati, il criterio era generalmente soprannaturale. Per citare anche solo gli esempi più noti, nella Cina imperiale, fin dalle sue origini, il diritto/dovere a governare era prodotto dal Mandato del Cielo, e i governanti ingiusti erano considerati aver perso il Mandato e quindi il diritto a governare; similmente il governo romano aveva un diretto collegamento con la Pax Deorum; con un’accezione differente, fino all’affermarsi del razionalismo e del giusnaturalismo laico, i monarchi europei erano chiamati al governo da un preciso diritto divino. Ancora oggi vi è chi rivendica il diritto a governare in funzione di fattori spirituali, sacrali o religiosi, anche se non necessariamente trascendenti. In termini schematici, pur nella grande diversità delle forme e delle motivazioni, ogni criterio di legittimità che si rifaccia ad una dimensione ultramondana è definito un criterio “Numinoso” (da Numen, il potere divino che presiede, secondo i romani, ogni luogo). La legittimazione di tipo “Numinoso” è una delle forme tradizionali di autorità legittima e riconosciuta.
La tripartizione di Max Weber dei tre tipi di autorità legittima (tradizionale, carismatica e razionale) è forse il sistema di classificazione più vasto e onnicomprensivo. Ad ormai un quinto del XXI secolo, la sola legittimazione all’autorità presente nelle società euro-occidentali è quella legale-razionale.
In una società moderna, nota il politologo tedesco Fritz W. Scharpf, esistono essenzialmente due tipi di legittimità di tipo legale-razionale: la legittimità di input (invocata a giustificare sedicenti democrazie), e la legittimità di output (invocata a giustificare oligarchie più o meno tecnocratiche).

La legittimità di input è definita da Scharpf come la corrispondenza con le esigenze espresse dalla cittadinanza per tramite della partecipazione politica. La legittimità di input si riferisce cioè al consenso popolare a priori, recedente alla formazione del governo e alla sua azione politica. Questo consenso popolare è misurato, al di là di altalenanti sondaggi a volte inopinatamente assunti come certificazioni più o meno autorevoli, tramite elezioni periodiche che nella sfera euroamericana sono generalmente ad affluenza parziale ma aperte a tutti.
In un sistema parlamentare, dove ad essere centrale è anche il Parlamento, necessariamente ci si deve basare su dei numeri, che dovrebbero esprimere in modo più o meno fedele l’orientamento generale dell’elettorato. Va da sé che, essendo periodiche, le elezioni generalmente non possono riflettere l’evoluzione degli orientamenti elettorali, ma si assumono come indicative.
In questo caso, dove a un dato incontestabile nelle elezioni per il rinnovo delle Camere del 4 Marzo 2018 è seguito un dato quasi opposto ma altrettanto chiaro emerso dalle elezioni per il rinnovo della quota italiana del Parlamento Europeo del 26 Maggio 2019, affermare che le forze politiche che si sono appena accordate continuino a rappresentare almeno il 50% dell’elettorato (rappresentato, sia nel 2018 che nel 2019, dal famoso governo gialloverde) in quanto detentrici della maggioranza numerica nelle due Camere è semplicemente falso.
Per quanto viziato dal fatto di essere comunque riferito alle problematiche UE, il risultato combinato del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico conseguito a Maggio rimane ben distante dalla fatidica soglia del 50%+1 degli elettori. Il popolo italiano, concetto distinto dagli elettori ma in essi misurabile, numericamente e a priori non si riconosce in una soluzione politica di questo tipo.
In questo senso, la soluzione alla crisi di governo aperta da Matteo Salvini è un esperimento politico perfino più grottesco del frenetico balletto in uso nella Prima Repubblica. Più grottesco per il motivo che comunque, nella vituperata e vituperabile Prima Repubblica, l’iniziativa politica apparteneva alle segreterie di partito (per quanto meri movimenti sociali e non collegati organicamente allo Stato) e che comunque il requisito della rappresentatività (elettoralistica) era soddisfatto, rimanendo il Governo sempre centrato su un partito che rimase praticamente sempre il primo nel consenso elettorale.
Già con questa disinvolta noncuranza, movimenti politici che stentorei proclamano la loro dedizione alla democrazia e alla cittadinanza offrono scarsa prova di sé.

D’altra parte è innegabile che, nella maggioranza dei casi, non sia possibile scindere la legittimità elettoralistica (eventualmente espressa a priori) dalla legittimità acquisita in corso d’opera da chi è al potere. Al contrario, in un contesto caratterizzato da regolari elezioni, l’operato del Governo in carica tende a conformare il responso delle urne alla fine del mandato elettorale. Vale quindi la pena prendere in esame la legittimità definita dell’output. Recentemente, numerosi politologi e sociologi hanno dedicato attenzione alla materia con riferimento particolare all’Asia orientale.
La legittimità dell’output si riferisce non a un consenso popolare formalizzato, consenso comunque malvisto tanto dalle tecnocrazie strutturate quanto dalle oligarchie più o meno camuffate, ma a una generale accettazione da parte del consesso sociale delle scelte di governo. Più che alle procedure formali di selezione, la legittimità dell’output si poggia su quella che, tra gli altri, Parag Khanna ha definito “good governance”.
Malgrado la possibilità concreta che l’oligarchia più o meno tecnocratica possa volgersi in un mero governo da parte del potere economico, la logica della legittimità dell’output è un passaggio a suo modo molto interessante: si stratta di (tornare a) separare la lotta politica dalla governance, l’espressione democratica dalle attività concrete del governo nei confronti della popolazione, in generale separare il processo dai risultati, dando attenzione più ai secondi che ai primi. Secondo Khanna, ma anche secondo Tom Friedman, e secondo i criteri di fatto vigenti nelle oligarchie non democratiche, il tipo di regime politico diventa secondario a fronte di risultati oggettivi (e per oggettivi si intende fortemente desiderati dalla società di riferimento).
Ancora non si conoscono quali siano i punti caratterizzanti del nuovo accordo politico tra il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle (più frammenti, per carità). Dalle indiscrezioni che emergono, sembra però che questi punti – quali l’estensione ulteriore di fantasmagorici diritti civili, lo smantellamento del precario sistema di controllo dell’immigrazione e altre mirabolanti intuizioni – siano parecchio distanti dalle esigenze degli italiani come singoli cittadini e come membri di una comunità nazionale. Al contrario, l’impressione che se ne ricava è che perseguano piuttosto agende esterne e impostazioni più dogmatiche e autoreferenziali che ideologiche e in contatto con la realtà.

E qui casca l’asino. Perché, seppure esistano regimi politici in cui la legittimità al governo oligarchico è tributata ex-post, dai chiari di luna che filtrano sui mezzi di comunicazione, più o meno ufficiali, più o meno tronfi nell’annunciare il rovesciamento di un governo timidamente nazionale e popolare, sembra che a questi veri e propri turisti della democrazia non solo manchi la consapevolezza delle esigenze degli amministrati (dire governati sottintenderebbe una reale autonomia dai loro sponsor internazionali), ma che siano caratterizzati da un reale e concreto rifiuto dell’idea di agire in una simile direzione.
È pur vero che è difficile esigere, considerando la grande volatilità elettorale degli ultimi anni, una completa aderenza alla legittimità di input; ad ogni modo le successive elezioni sono pur sempre momenti in cui vengono espressi orientamenti dello stesso corpo elettorale che si esprime a nome dello stesso popolo e, per rispettare il dirsi democratico di questo sistema politico, è necessario tenerne conto.

Si comincia quindi a poter individuare il nocciolo del problema, e della sostanziale aberrazione di questo accordo politico che si profila.
Il problema, cioè, non è solo o non tanto il fatto di ignorare la maggioranza verosimilmente reale e aggrapparsi alla maggioranza parlamentare: appellarsi agli interessi supremi della Nazione sopra al responso delle urne, se veramente intesi come tali, è una pratica seguita anche da ben altre esperienze politiche, di ben altro respiro. Il problema è semmai questo appellarsi alla correttezza esteriore E allo stesso tempo governare contro le esigenze nazionali e varare decisioni che si sa essere avversate nel Paese e che si sa di essere destinate a non godere neanche della legittimità a posteriori.

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