Sul primato della politica sull’economia

Nel mondo globalizzato, la scelta di vincolare la libertà d’azione della politica al miglioramento di arbitrari parametri economici si è rivelata essere controproducente per il benessere della società stessa. Giudicare qualunque scelta compiuta dal governo in base alla sola soddisfazione dei “mercati” crea un terreno fertile per limitare sempre di più la libertà di azione della politica, oltre che ridurre l’efficacia dell’unica arma a disposizione del cittadino: il voto. Ma allora a che serve avere un Parlamento se può legiferare fintanto che si rispettino decisioni prese altrove, addirittura al di fuori dei confini nazionali?

Primato della Politica

Limitando la sua possibilità di compiere scelte economiche non allineate, la politica si è semplicemente sottomessa ai principali attori dei mercati, ovvero le élite economico-finanziarie che tramite essi esercitano un potere che non risponde ad alcun parlamento o costituzione: non risponde, insomma, all’incarnazione più diretta del potere politico.
Questa situazione a ben vedere cozza anche con la visione classicamente liberista, secondo la quale lo Stato dovrebbe limitarsi a creare le migliori condizioni affinché l’economia possa prosperare per mezzo dell’iniziativa privata. Ebbene, il “privato” che abbiamo in mente quando ci si imbatte in queste argomentazioni, ovvero la piccola e media impresa, il libero professionista…sono figure che vengono schiacciate da conglomerati di dimensioni colossali. Sono quest’ultimi che possono permettersi la libera iniziativa, trattando con lo stato da pari a pari (se non in una posizione di superiorità) in virtù del loro peso. Essi sono i veri beneficiari della messa in disparte della politica (quando non se ne servono per cristallizzare la loro posizione dominante nel mercato) perché sono liberi di abusare della loro posizione dominante, proprio ciò di cui i liberisti accusano lo Stato.
Nell’arena abbiamo dunque questi due avversari, il piccolo privato impotente davanti alle scelte della politica ed il grande privato che in quelle scelte può permettersi di influire, in una lotta assolutamente impari.

A differenza di chi appoggia il sistema oggi vigente, noi non riteniamo esistano criteri che funzionino ad ogni latitudine per governare al meglio un Paese. In particolare, prendiamo atto che nel caso dell’Italia i vari tentativi di “rivoluzione liberale” si sono rivelati essere una scelta deleteria per il tessuto economico e sociale, la cui forza risiedeva nell’universo di piccole e medie aziende fortemente competitive assieme a grandi aziende a partecipazione pubblica. Privatizzazioni frettolose, brusche aperture a mercati ben più grandi, riforme del mercato del lavoro incompatibili col mercato del lavoro stesso hanno distrutto la domanda interna e preparato il terreno alle massicce acquisizioni estere delle imprese che sono sopravvissute puntando sulle esportazioni. Non certo un vantaggio per la società nel complesso. Per questo motivo, appoggiamo il ritorno della supremazia del governo sui mercati, così che possa agire non perseguendo dei dogmi sempre più fallibili, ma nella massima discrezionalità possibile.

Nel cambio di rotta che auspichiamo, una cosa deve essere messa in chiaro: ridare alla politica il primato sull’economia non significa sdoganare le soluzioni più strampalate ai problemi che oggi ci sono, e che è disonesto imputare alla sola esasperazione del sistema oggi vigente. Se nate da una mancata comprensione dell’economia stessa, le leggi emanate da uno Stato forte si rivelano ben più disastrose di qualunque politica “laissez-faire” o presunta tale. I paesi che hanno sperimentato la dittatura comunista lo sanno bene.
La comprensione ed il rispetto del funzionamento del Mercato, quello con la M maiuscola e non quello che nasconde interessi particolari di un ristretto gruppo di persone, deve guidare le scelte dell’esecutivo, perché solo così può ritornare a perseguire quel “bene comune” che tutti noi abbiamo in mente: più prosperità, più stabilità, più sicurezza, per tutti.

Un altro errore che bisogna assolutamente evitare è considerare come parte integrante della fisiologia dell’Italia alcuni problemi che si trascina irrisolti da decenni, come l’elevata tassazione a fronte di un uso decisamente poco accorto del denaro pubblico, o la burocrazia asfissiante che limita fortemente qualunque iniziativa privata, dal passaggio di proprietà all’avviamento di un’impresa. Problemi che spesso sono mantenuti artificialmente in vita da potentati nostrani, che dalla loro esistenza traggono vantaggio. Non bisogna giustificarne in alcun modo l’esistenza, specie inserendoli nella retorica del “noi” cittadini italiani contro “loro” burocrati e banchieri stranieri, per lasciarli impuniti. Chi della mala gestione dello Stato ci vive, è un problema pari se non peggiore di chi vuole mettere il potere politico all’angolo. Quest’ultimi infatti si fanno forte di queste situazioni per guadagnare consensi e svuotare le istituzioni nazionali della loro sovranità.
Un governo con massima libertà d’azione, perché possa intervenire quando e dove serve al fine di proteggere la società di cui è espressione, non è quindi un governo che di tale società si appropria, ma anzi deve impedire che ciò accada per mano di altri. Stiamo parlando del ristretto gruppo di persone la cui ricchezza continua ad aumentare a dismisura, mentre tutti gli altri si ritrovano ad affrontare l’erosione dei salari, la precarietà del lavoro, le divisioni ed i conflitti sempre maggiori in una società relativista e multiculturale.

Oltretutto, questo ritorno della centralità della politica è a tutto vantaggio dell’elettore, cioè dell’appartenente attivo a una comunità politica. La tentazione di non assumersi la responsabilità delle proprie scelte sbagliate è sempre forte nel politico, in particolar modo all’avvicinarsi delle elezioni. Oggi è facile nascondere la polvere sotto al tappeto, poiché qualunque tentativo di rottura con la vulgata liberal-europeista viene immediatamente ostracizzato e demonizzato da chi dallo status-quo trae vantaggio (o ne è semplicemente assuefatto).  Basta dare la colpa ai “tecnocrati di Bruxelles”, a prescindere delle vere responsabilità, per non ammettere il fallimento di una scelta di governo. Ma se è il legislatore ad avere l’ultima parola, ecco che non può più nascondersi dietro ad un dito, o ad un tecnico. Se fallisce, la colpa ricade solo su di lui, ed il giudizio elettorale lo aspetta.
Si è creduto per anni che riducendo il campo d’azione del governo il cittadino fosse più libero, ma come abbiamo detto gli unici ad essere davvero più liberi sono coloro che hanno già di per sé la possibilità di trattare faccia a faccia con i governi, ovvero chi detiene le fette più grosse del capitale. Ecco quindi che permettere ad un governo di agire con maggior discrezione comporta maggior potere per il cittadino votante, il solo che potrebbe decidere se mandare a casa chi comanda, ad ogni tornata elettorale.

Assistiamo preoccupati all’affermazione, da alcuni anni, di un nuovo principio di autorità, secondo il quale l’opinione della persona dal ricco curriculum e dai numerosi titoli di studio sia da ritenere in maggior considerazione rispetto a quella di chi ha avuto una carriera scolastica più breve, a prescindere dall’effettiva preparazione e senso critico. Ironia della sorte, chi oggi fa di questo una bandiera si considera il più strenuo difensore dello stato di diritto, nato dall’Illuminismo, che esordì proprio criticando il principio di autorità che perpetrava la Chiesa di allora: ciò che dicevano la Bibbia, o Aristotele, erano verità dogmatiche e l’onere della prova spettava a chi voleva confutare tali verità. Oggi il sacro testo del master conseguito all’estero rende il suo detentore portatore di una verità insindacabile, e quindi la sua opinione -comunque frutto di convinzioni personali- andrebbe per forza tenuta in maggior considerazione di chi finite le scuole superiori se ne è andato dritto a lavorare.
Sia chiaro, nel mondo del lavoro guardare al titolo di studio è un criterio lecito per selezionare dei candidati per un certo ruolo. Ma applicare questo principio alla politica, in cui perseguimento del bene comune e lotta per il potere sono necessariamente intrecciati, non fa che fornire un’arma di delegittimazione dell’avversario, ritenuto addirittura indegno di esprimere la sua opinione sulla base dei suoi titoli di studio. È una visione miope, quando non disonesta, per decretare chi sia più adatto a governare.
A questo si accompagnano, ad ogni tornata elettorale, pretese sempre più veementi di rivedere il suffragio universale con l’introduzione di misteriosi “patentini di voto”, la cui funzione è ancora una volta estromettere l’avversario dalla cosa pubblica. Ancora, queste iniziative provengono proprio da chi non vorrebbe cambiare il sistema vigente, anzi semmai rafforzarlo.
Ci piace vedere in queste bizzarre iniziative come il segnale che un cambiamento stia già avvenendo, che chi ci guadagna dall’attuale condizione comincia a vedere delle crepe e non sapendo come ben rispondere si stia facendo guidare più dal panico che dalla razionalità. Non possiamo che auspicare ad una rapida messa all’angolo di questi potentati, il prima possibile.

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